Qualche filo di lettura
I Feaci sono gli abitanti della terra di confine, quasi i traghettatori dei morti; vicini ai Ciclopi ma costretti ad allontanarsene. Ai confini del mondo (sono definiti gli “èschatoi”, gli ultimi, gli estremi VI 205).
E incontriamo, prima immagine diretta, un Ulisse che piange, guardando il mare. Dov’è l’eroe che ci attendiamo? l’eroe alla cui ricerca è partito Telemaco? siamo al “punto zero” di Ulisse; da qui, passando anche per la sua successiva detersione dal salmastro che fa dopo l’incontro con Nausicaa, inizia il suo cammino di risalita.
È un Ulisse che rifiuta la proposta di immortalità: preferisce Penelope a Calipso; la pietrosa Itaca al locus amoenus in cui si trova a trascorrere il suo tempo.
Ma è destino (moira) che riveda i suoi cari.
E nelle parole di Ermes, messaggero, che prefigura il compiersi di questo destino si delineano da una parte il senso di vicinanza, di com-passione e, dall’altra, quesi segni che, abbiamo visto, rendono gli dei in certo qual modo invidiosi della passionalità, estrema perché mortalmente limitata, degli uomini.
Sull’infecondo mare, che non produce vita, ci siamo fermati anche noi per un po’, indagando soprattutto l'espressione omerica "sul mare colore del vino" (ἐπὶ οἴνοπα πόντον; epì òinopa pònton).
Ci è venuto in aiuto anche Nietzsche: i Greci non conoscevano il blu:
«Quanto diversamente i Greci hanno veduto la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno più scuro, in luogo del secondo un giallo (giacché designavano con la stessa parola, per esempio, il colore dei capelli bruni, quello del fiordaliso e del mare meridionale, e con la stessa parola il colore delle piante più verdi e della pelle umana, del miele e della resina gialla: sicché, stando alle testimonianze, i loro grandissimi pittori hanno ritratto il loro mondo solo col nero, il bianco, il rosso e il giallo) – quanto diversa e quanto più vicina agli uomini dovette apparire loro la natura, dal momento che ai loro occhi i colori degli uomini erano anche nella natura preponderanti e questa nuotava, per così dire, nell’atmosfera dei colori umani! (Azzurro e verde disumanizzano la natura più di ogni altro colore)…».
Con queste parole Friedrich Nietzsche denunciava, nell’aforisma 426 di Aurora, la ‘cecità cromatica’ dei Greci, riprendendo un giudizio diffuso negli anni ’80 del XIX secolo. Era stato Johann Wolfgang von Goethe a cominciare: nella sua Teoria dei colori (1808-10) aveva osservato, e non si sbagliava, che il lessico greco del colore esibisce una peculiare ‘mobilità’ e ‘oscillazione’. L’area del giallo, ad esempio, non è nettamente delimitata dal rosso da un lato, dal blu dall’altro, né quella del rosso dal giallo e dal blu: così il termine xanthos può coprire le più diverse sfumature del giallo, da quello lucente delle bionde chiome degli eroi omerici alla vampa rossastra del fuoco, o il purpureo (porphyreos) può sconfinare nel blu. Goethe ne aveva desunto che gli antichi avessero scarso interesse per un’esatta discriminazione delle tinte; e notando, in aggiunta, la tendenza a concepire bianco e nero come colori (riportati all’antitesi di luce e oscurità), poteva giocare la visione greca del colore, esperienza psicologica ‘viva’, contro l’arida scomposizione della luce bianca nel prisma che aveva segnato, con il famoso esperimento di Isaac Newton, gli inizi dell’ottica matematica moderna.
(il link per la citazione)
Ricordiamo che i colori compaiono nell'evoluzione linguistica di ogni società nello stesso ordine: bianco, nero, rosso, verde, giallo, blu, marrone, arancio, viola, rosa e grigio
Qual è il rischio che Ulisse non vuole correre nel viaggio di ritorno? morire in un naufragio senza testimoni: la fine eroica è nel combattimento davanti a tutti non in un solitario perire nel mare.
Nel sottolineare la perizia di Nausicaa e la sua discrezione, ci siamo anche soffermanti sul quadro che lei dipinge di Arete, la mamma: regina della reggia cui per primo Ulisse deve rivolgere il suo segno di deferenza e saluto. Un quadro familiare dipinto a tinte caldissime, in un palazzo che è umano e anche locus amoenus.
Un finale (in due tempi) “metaletterario”, quando la letteratura riflette su se stessa.
Demodoco è “cantore divino” e cieco canta, su richiesta, la contesa tra Ulisse e Achille; aggiunge all’Iliade un tassello di uno dei tanti racconti e poi, su invito di Ulisse, canta l’ideazione del cavallo di legno. E, qui, troviamo Ulisse che è come Telemaco: nasconde la commozione del pianto. Il figlio nel sentire narrare del padre mai conosciuto, il padre nel sentire sé stesso narrato.
E, secondo tempo, è la rovina che dà materia di canto ai posteri: la poesia nasce dal “forte sentire” e si nutre di vite e di storie. Quelle che noi leggiamo e stiamo sentendo cantare, proprio come accad(d)e ad Ulisse, che è protagonista del racconto narrato e vissuto.
La citazione
in riferimento a Odissea VIII 487-495
«È un momento cruciale della letteratura occidentale. L’eroe di una storia sta chiedendo a un poeta di cantare il suo passato. Quest’eroe, sinora sconosciuto e senza nome per i presenti, sta per essere conosciuto come Odisseo stesso, l’uomo che ha debellato e distrutto Troia, proprio colui del quale Demodoco ha cantato due volte. Ciò che sinora era per i Feaci materia leggendaria di poesia sta diventando realtà».
(Boitani P., Riconoscere è un dio, Einaudi, Torino 2014, p. 70)
ps: per chi fosse interessato alla "divagazione sui punti di vista", lascio qui il link alla Nencia da Barberino di Lorenzo de Medici: un bell'esempio di quando chi "parla" utilizza la sua enciclopedia di riferimento :-)
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