qualche filo di
lettura
Classica l’impostazione
“formulare” dell’esordio del poema. La prima parola è l’argomento dell’intera
narrazione: è l’uomo, àndra
(accusativo maschile singolare di anèr,
uomo), non c’è bisogno di nome perché l’aggettivo che lo connota, polytropon
“ingegnoso” o “che molto ha vagato”, definisce da subito il protagonista,
Ulisse.
È un testo poetico, frutto di rielaborazioni che, a volte,
lasciano intravedere “scuciture”,
errori, incongruenze. Per quanto sia un lavoro di tante persone, sono proprio
le imperfezioni che testimoniano il condensarsi di materiali di diverse
origini, “fusi” in una narrazione organica.
Abbiamo sottolineato il ruolo centrale della narrazione, del
canto: la vicenda che stiamo
ascoltando è racconto anche di se stessa. E nella storia che noi sentiamo
cantata (erano gli aedi, dei cantori, a recitar-cantando il testo che stiamo
leggendo) ci sono le storie stesse che la muovono. Chi canta, racconta le
vicende dei ritorni di cui è stato protagonista o di cui ha sentito narrare. E
la musica ed il canto, che accompagnano i banchetti, sono l’elemento
costitutivo dello stare bene insieme, nel vincolo di vicinanza e di ospitalità.
L’ospitalità è
sacra: è principio cardine degli uomini che rispettano il proprio ruolo e che,
a colui che si trova lontano da casa, offrono se stessi e la propria dimora per
rinforzare o far nascere vincoli e legami. E un segno con-diviso, il symbolon,
testimonia concretamente questo legame. Supera il tempo e permette anche agli
eredi ed ai figli di essere certi di quanto accaduto e di far proseguire il
legame di ospitalità.
Negano l’ospitalità i proci,
che a Itaca si comportano come predatori: dissacrano la reggia di Ulisse,
violano ogni dovere di ospitalità e rendono ulteriormente triste un’isola che,
abbiamo notato, non brilla per la sua bellezza. I proci, nella ricerca del
piacere, consumano esistenza e risorse; Penelope, non la più santa delle donne,
vi si oppone, rinviando per quanto possibile il suo triste destino; Telemaco
sembra rassegnato.
È Atena che smuove Telemaco: lo esorta a crescere e a non
subire la situazione. Sono gli dei
che agiscono nel mondo e che, spesso, giocano con le vite degli uomini. Il
ritorno di Ulisse è ostacolato per una sua colpa per cui un dio vuole vendetta;
il viaggio di Telemaco è avviato, e programmato…, per intervento di una dea che
è vicina ad Ulisse e si dispiace per il suo destino.
Ulisse è ad Ogigia, l’ombelico
del mare, una sorta di contraltare di Delfi, l’ombelico del mondo dove
saggezza e misura, nel segno di Apollo, regnano come principi. È Calipso (la
dea che nel nome evidenza il nascondimento, la dimenticanza) a custodirlo ed a
renderlo “lontano” dal ritorno (nòstos) che invece è toccato a molti
di coloro che, con lui hanno combattuto a Troia.
Ed Elena, la
causa della guerra, incontra Telemaco in una reggia, quella di Sparta, che
risplende del decoro e della ricchezza della presenza di un re. Elena è una
donna che porta in sé la consapevolezza della colpa di cui s’è resa causa: le
sofferenze, passate e presenti, di Telemaco e di tanti altri sono figlie del
suo desiderio, della sua passione amorosa.
Altri, anche eroi, non sono invece riusciti a tornare a
casa: il loro nòstos non s’è
compiuto. C’è chi è stato vittima della propria ingordigia, chi della propria
empietà, chi della propria hybris, la tracotanza/arroganza che
è superamento dei limiti, eccesso di autostima, smodata fiducia nelle proprie
capacità. Peccano di hybris i proci,
che violano Itaca e la sua reggia, profanandola.
Quando Telemaco
se ne allontana, il suo viaggio non gli rivelerà, per le parole dei suoi
interlocutori, l’oggetto della sua ricerca: la verità sul destino del padre,
preannunciatagli da Atena nel suo incontro sotto mentite spoglie (perché gli
dei si accostano agli uomini in forma di uomini…), non trova risposta diretta.
Il suo viaggio è, al contempo, inutile per l’oggetto diretto, utilissimo per la
sua crescita, perché Telemaco viene a conoscere suo padre “nella scia” delle imprese
che lo hanno reso famoso ed hanno generato verso di lui l’affetto di chi l’ha
conosciuto. Telemaco percepisce la presenza del padre più nel ricordo delle
persone che accosta durante la sua peregrinazione che nella casa che è frutto
delle fatiche di Ulisse.
Una lontananza lunga quella di Ulisse: 20 anni senza re.
Quanto contava la monarchia, allora?
Quanto la società stava cambiando e, pur mantenendo il ricordo di antichi
principi, stava virando verso forme di aristocrazia sempre più forti?
Un finale
“provocatorio”
Una marea di personaggi, tantissimi luoghi, dei che
intervengono di persona e sotto mentite spoglie. Immergersi nell’Odissea è
entrare in un mondo vivo in cui le didascalie (chi è chi, chi ha fatto che cosa
e perché…) non ci sono. Un effetto straniante.
Che, se volete, è lo stesso che all’inizio “uccide” il
lettore de I Malavoglia di Verga (o,
parafrasando nell’attualità, rende difficile seguire le puntate de Il Grande Fratello in TV quando si
presentano all’inizio i nuovi protagonisti). Ma la lettura integrale consente
di “entrare nel villaggio”, condividere la storia e aver sempre meno bisogno
delle didascalie.
Lo vedremo già dalla prossima sezione di canti.
La citazione
«La Legge della parola è la Legge
del riconoscimento dell'Altro di cui si nutre la vita umana. Affinché la mia
esistenza abbia un senso, affinché possa costituirsi come umana non necessita
solo del pane ma del lievito del desiderio dell'Altro. In questo senso la vita
del "parlessere" è appello, domanda d'amore rivolta all'Altro,
domanda di essere qualcosa per il desiderio dell'Altro. Se questo lievito manca
la vita cade nel non-senso, diventa vita senza vita, vita spenta.»
Recalcati M., Il complesso di Telemaco, Feltrinelli,
Milano 2013, p. 33
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